lunedì 11 luglio 2011

Quando le parole vengono fuori da sole, fanno paura

"Non mi guarda nemmeno in faccia mentre mi parla. Se ne sta li con il suo completo blu e la cravatta a cappio, naso infilato elegantemente tra i fogli. Mi dice di non preoccuparmi e per ricordarsi il mio nome va a rileggere la prima pagina del mio dossier.
Non ho mai capito il senso di chiamare questi incontri “colloqui”, quando è soltanto lui a parlare. Lui e la sua ventiquattrore da 300$. Lui che ha finito il college da troppo tempo per considerare una sfida un caso come il mio. Lui che sa perfettamente che è il primo a non credere alla mia innocenza, ma che è pagato per convincere tutto il mondo che sono un angioletto.
Un capro espiatorio.
Mi dice che mi farà testimoniare.
Io lo guardo in silenzio, attraverso le sue lenti a contatto che gli sgranano gli occhi.
Mi dice che ne uscirò pulito, che alla peggio giocheremo la carta del raptus.
Gli fisso le unghie pulite e limate, chiedendomi da quando la mia vita si è ridotta ad un paio di mani di poker.
Mi dice che dovrò mostrarmi sconvolto in aula, di fronte alla giuria.
Che la mia giovane età e la mia storia, recitate a dovere, li sconvolgeranno, li commuoveranno.
Altaleno tra il Rolex che strizza il suo polso tozzo, alle manette che segano i miei.
Sfodera una penna di metallo, svita il tappo e si arma di fogli.
Legge di nuovo il mio nome sul fascicolo, guarda negli occhi la mia foto segnaletica e mi chiede di ricostruire insieme i fatti, lentamente.
La verità è che io volevo ucciderla. Volevo conficcare quel cacciavite in quel collo morbido, volevo tapparle la bocca, fermare il suo incessante bla bla bla.
La verità è che non ho sentito niente fissandola negli occhi mentre rantolava, cercando di colpirmi.
La verità, è che ho baciato quelle labbra ancora tiepide con una soddisfazione che non ho mai immaginato di poter provare.. Finalmente ferme, finalmente zitta.
La verità, è che i suoi occhi non mi sono mai sembrati tanto belli quanto quel momento, con il riflesso scuro del suo sangue che si allarga sotto alla sua schiena. Era perfetto. Immobile e zitta, con l’aria ancora sorpresa, vagamente irritata, ma in silenzio.
Se non fosse stato per quel pezzo di manico di plastica rossa che le spuntava da sotto all’orecchio, sarebbe stata magnifica.
La verità, è che non ho bisogno di ricostruire niente, perché è lui che mi mette le parole in bocca.
Lo chiama clima familiare difficile.
Lo chiama stress.
Lo chiama raptus.
Lo chiama incidente.
Chiama il mio silenzio, la mia inespressività, shock post traumatico.
Mi dice che sono emotivamente distrutto.
Che ho pianto a lungo durante il nostro colloquio.
La sua penna scorre sui fogli lasciandosi dietro una scia regolare di inchiostro.
Lo psichiatra del carcere direbbe che quella è la calligrafia di una persona equilibrata, che le sue maiuscole tradiscono un po’ di egocentrismo, ma che la continuità delle sue lettere ci fa capire quanto sia accurato, affidabile e sicuro di sé.
Lo psichiatra del carcere è un altro che dopo tutti gli anni delle solite storie, ci considera un branco di inutili bastardi matti,ma che è pagato per scovare i traumi della nostra, della mia infanzia.
E di dare un senso a quello che alla giuria verrà definito come un raptus.
L’avvocato alza gli occhi dai fogli, per un istante sembra che voglia guardarmi in faccia.
Ed invece mi supera, controllando l’orologio a muro appeso sopra la mia testa.
Che persona equilibrata.
Ha un Rolex ma non lo ostenta.
E soprattutto, non mi guarda in faccia.
Guarda i suoi fogli, i suoi appunti, la sua versione della mia storia.
Mi dice pacatamente che per oggi basta così.
Mi dice che sto andando bene.
Riavvita il tappo alla sua penna, e dice che avremo un altro colloquio tra due giorni.
Mette in ordine i fogli nella ventiquattrore, controllando ancora una volta il mio nome prima di ripeterlo, per rassicurarmi ancora una volta. Non preoccuparmi. Tenere duro.
E’ infilandosi di nuovo il suo doppiopetto nero in lana cotta, che dice alla guardia che abbiamo finito.
E’ fissando il Rolex che esce e mi saluta, sbagliando il mio nome.
E’ dopo un’ora precisa del suo monologo, che sto immaginando la sua penna di metallo col tappo a vite, conficcata a fondo nel suo palato."

Scrivo tutto d'un fiato, interrotto solamente una volta, quando la barista mi si accosta e mi chiede [Hei, scrivi le tue memorie?] ....
Beh, no.
O non ancora?

Mehehehehe

3 commenti:

  1. Io avrei tanto tanto tanto tanto tanto voluto vedere la tua faccia leggendo questo racconto.
    Appena ci si vede mi fai il loop delle tue espressioni, e non sento cazzi.

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  2. ti lascio un'immagine riassuntiva http://imagemacros.files.wordpress.com/2009/12/omg_it_spins.jpg

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